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Perché ci sentiamo inadeguati?

Capire le radici psicologiche del “non essere abbastanza” — dalla storia infantile alle relazioni adulte — e cosa possono offrire la terapia e l’ascolto.

In questo articolo non troverai frasi fatte come “va bene sentirsi così”, “è normale” o “non sei tu difettoso” perché a me non interessa darti soluzioni rapide o rassicurarti sulla tua normalità. Che poi potremmo anche parlare a lungo di cosa si intende per normalità. La norma è un dato statistico. Cioè si riferisce a una maggiore probabilità che un dato accada. 

Charles Bukowski diceva: “Non mi fido molto delle statistiche, perché un uomo con la testa nel forno acceso e i piedi nel congelatore statisticamente ha una temperatura nella media.” Forse allora essere nella media non solo non è necessariamente sinonimo di benessere, ma può anche rendere difficile conoscersi, se continuamente vogliamo rifarci a un modello di normalità. Quindi cerchiamo di ricordare a noi stessi che normalità non è sinonimo di benessere, ma semplicemente di maggiore frequenza.

Dunque ciò che mi ripropongo di fare qui è ascoltare e capire. Da un attento ascolto di noi stessi è possibile ricostruire da dove nasca questo malessere e quali corde tocchi in ciascuno di noi. Perché ovviamente le corde di una persona non saranno mai uguali a quelle di un’altra. Dietro all’etichetta di inadeguatezza, per ognuno di noi, si cela un contenuto diverso.

Con questo articolo spero di guidarti attraverso una lettura psicoanalitica dell’inadeguatezza: cosa la genera, come si struttura nella vita interiore, in che modo si ripete nelle relazioni, e che cosa può succedere quando la si esplora in terapia.


Le radici psicoanalitiche dell’inadeguatezza

Freud e lo scarto tra Sé ideale e Sé attuale

Nel 1914 Freud, in Introduzione al narcisismo, introduce il concetto di Ideale dell’Io: un modello interiore che ciascuno porta con sé, derivato dalle aspettative genitoriali e sociali. Questo ideale diventa un orizzonte, un’immagine di perfezione che il soggetto cerca di incarnare. A esso si contrappone il Sé attuale, la percezione immediata di ciò che siamo nella realtà.

Quando lo scarto tra le due immagini diventa troppo ampio, il soggetto non sperimenta colpa (che riguarda la trasgressione a una regola del Super-Io), ma vergogna. È la paura di essere visti per quello che si è davvero e di scoprire di non essere abbastanza.


La nascita del senso del Sé nelle prime relazioni

La scuola della self-psychology (Kohut e altri) ha posto al centro la funzione del mirroring (specchiamento empatico): il bambino ha bisogno che i suoi affetti e sforzi vengano visti e convalidati per sviluppare una coesione interna. Quando lo specchiamento è carente o intermittente, si instaura un vuoto che la psiche cerca di riempire con successi esterni, ruoli o performance.

René Spitz (The First Year of Life, 1965) sottolinea il ruolo delle risposte materne nei primi mesi: la continuità delle cure, la presenza costante, lo sguardo che dà al bambino la certezza di esistere. Dove questo viene a mancare, si sviluppa un Sé precario che facilmente interiorizza l’idea di “non meritare” amore o attenzione.

Edith Jacobson (The Self and the Object World, 1964) mostra come il senso del Sé sia legato alla qualità delle relazioni oggettuali interiorizzate: un ambiente che trasmette costantemente un messaggio di insufficienza imprime un marchio che riemerge più tardi nella forma della vergogna adulta.

Le teorie relazionali e dell’intersoggettività (ad esempio Jessica Benjamin) spostano l’accento sul riconoscimento reciproco: sentirsi adeguati è anche una questione che passa attraverso l’altro che riconosce la nostra soggettività. Allo stesso tempo, il lavoro sulla mentalizzazione (Fonagy et al.) mostra come la capacità di comprendere stati mentali interni — propri e altrui — riduca l’ansia e la vergogna che alimentano la sensazione di inadeguatezza. In assenza di un ambiente che mentalizzi (ossia che renda pensabile l’esperienza emotiva), questa rimane confusa e si presta a interpretazioni autocritiche.


La vergogna come emozione fondativa

Se per Freud l’accento era sul Sé ideale, altri autori post-freudiani hanno collocato la vergogna al centro del pensiero psicoanalitico.

Helen B. Lewis (Shame and Guilt in Neurosis, 1971) distingue chiaramente tra colpa e vergogna: mentre la colpa nasce da un conflitto tra desiderio e legge, la vergogna si radica nel fallimento rispetto all’ideale del Sé e all’immagine di sé di fronte all’altro.

Andrew Morrison (The Culture of Shame, 1989) descrive la vergogna come l’emozione “segreta” che attraversa l’intera esperienza soggettiva, molto più diffusa e pervasiva della colpa. È una ferita identitaria che colpisce il nucleo dell’Io, generando silenzio, ritiro, sensazione di invisibilità o, al contrario, bisogno disperato di riconoscimento.

Donald Nathanson (Shame and Pride, 1992) ha mostrato come la vergogna sia regolata da uno script affettivo universale: di fronte alla discrepanza tra Sé ideale e Sé attuale, il soggetto può reagire nascondendosi, auto-umiliandosi, o cercando compensazioni grandiose.



Cosa può offrire la terapia

La terapia non ha come obiettivo quello di fornire risposte semplicistiche o prescrittive. Non si tratta di ricevere una formula pronta che elimini la sensazione di inadeguatezza, quanto piuttosto di intraprendere un percorso di comprensione: capire come una persona funziona, quali sono le radici del suo sentire, e perché la sua storia lo ha condotto a percepirsi in quel modo.

Nel caso della vergogna e del sentirsi inadeguati, il lavoro analitico può aprire uno spazio per interrogare il rapporto tra il Sé ideale e il Sé attuale. Il compito non è eliminare l’ideale — che rappresenta comunque una forza vitale di crescita — ma trasformarlo in qualcosa di raggiungibile, che stimoli senza schiacciare. Un Sé ideale troppo distante genera inevitabilmente senso di fallimento, mentre un Sé ideale troppo sovrapposto al Sé attuale impedisce ogni possibilità di evoluzione.

La terapia aiuta allora anche a distinguere se l’immagine a cui si tende sia davvero propria o se sia un’eredità familiare, un mandato implicito trasmesso dai genitori o dall’ambiente. Diventare “un medico di successo” è davvero il mio desiderio, o sto inseguendo un’immagine che altri hanno costruito per me? Capire per chi stiamo lottando è spesso il primo passo per sciogliere la vergogna che nasce da un conflitto interno.

Un altro nodo cruciale riguarda ciò per cui ci giudichiamo. A volte la difficoltà a raggiungere un obiettivo deriva dal fatto che quell’obiettivo non appartiene davvero al nostro desiderio, e allora il giudizio diventa implacabile. Altre volte, la vergogna scaturisce dalla discrepanza fra ciò che mostriamo agli altri e ciò che sentiamo di essere: la paura che l’immagine esterna non regga di fronte alla verità intima.

Infine, inseguire la perfezione può trasformarsi in un ostacolo mascherato da virtù. Mirare alla perfezione significa, in realtà, garantirsi di non raggiungerla mai. È una forma di auto-sabotaggio sottile: si rimanda il rischio, si attende sempre la condizione ideale, ma così si resta fermi. 

Un’immagine che il mio maestro mi ha trasmesso è quella del treno. C’è chi aspetta il treno perfetto: in orario (e già questo, con Trenitalia, è un atto di fede), con il posto nel verso di marcia e magari vista finestrino. Ma aspettando quel treno ideale, si rischia di restare per sempre in stazione. La terapia, invece, invita a salire sul treno che c’è — anche se un po’ sgangherato, anche se non tutto è al proprio posto — e a iniziare comunque il viaggio. E può capitare che, una volta saliti, ci si accorga che quella carrozza un po’ scrostata, che inizialmente non avremmo scelto, alla fine non è poi così male: magari non ha la vista migliore, ma ci regala incontri, conversazioni inaspettate, o semplicemente la sensazione di essere in movimento e di aver finalmente preso il nostro posto.

È in questo spazio — quello dell’imperfezione accolta, della possibilità che si apre solo quando smettiamo di aspettare il momento giusto — che il senso di inadeguatezza può trasformarsi da peso paralizzante a possibilità di crescita autentica.



Conclusione

Sentirsi inadeguati è un’esperienza comune, eppure dolorosa: tocca corde intime, spesso custodite nel silenzio. La psicoanalisi non cancella questa sensazione con una risposta definitiva, ma aiuta a comprenderne il linguaggio. Permette di scoprire se quell’immagine ideale che ci schiaccia sia davvero il nostro desiderio o un’eredità che non ci appartiene.

Forse, allora, non si tratta di eliminare la distanza tra il Sé attuale e il Sé ideale, ma di ridisegnarla in modo che non diventi un abisso incolmabile. Un ideale che stimola senza umiliare, che incoraggia senza soffocare. 

Come terapeuta, credo che l’incontro analitico possa restituire questo spazio: non un luogo di giudizio, ma un luogo di ascolto. Un luogo in cui la vergogna non sia una condanna, ma un invito a interrogare la propria storia e a scegliere consapevolmente quale strada percorrere.

E a questo punto, ti lascio alcune domande che forse possono accompagnarti:

  • L’immagine che inseguo è davvero mia o appartiene a qualcun altro?
  • In che cosa mi giudico più duramente?
  • Quale “treno” sto rimandando di prendere, nell’attesa che sia perfetto?

Sono queste le domande che non hanno una risposta unica, ma che possono aprire un cammino personale, fatto di ascolto e di possibilità.


Dott.ssa Andrea Budicin 


Riferimenti utili per chi vuole approfondire:

  • Benjamin, J. (1988). The Bonds of Love: Psychoanalysis, Feminism and the Problem of Domination.
  • Bukowski, C. (cit.).
  • Fonagy, P., Gergely, G., Jurist, E., Target, M. (2002). Affect Regulation, Mentalization and the Development of the Self.
  • Freud, S. (1914). Zur Einführung des Narzißmus (Introduzione al narcisismo).
  • Jacobson, E. (1964). The Self and the Object World.
  • Kohut, H. (1971). The Analysis of the Self.
  • Lewis, H. B. (1971). Shame and Guilt in Neurosis.
  • Morrison, A. (1989). The Culture of Shame.
  • Nathanson, D. L. (1992). Shame and Pride: Affect, Sex, and the Birth of the Self.
  • Spitz, R. (1965). The First Year of Life.


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