"Mi sembrava di morire, il cuore a mille, non riuscivo a respirare, ma i medici non trovavano nulla che non andasse."
Chi ha vissuto un attacco di panico spesso descrive così la propria esperienza. È una sensazione che irrompe senza preavviso, come un fulmine a ciel sereno: tachicardia, vertigini, senso di svenimento, angoscia, mancanza d’aria. Eppure, dal punto di vista medico, il corpo risulta “a posto”. È proprio qui che la psicoanalisi inizia ad ascoltare.
L’attacco di panico: non è solo ansia
Nel discorso comune, si tende a ridurre l’attacco di panico a un picco d’ansia. Ma chi ne soffre sa che si tratta di qualcosa di più: è un evento traumatico, spesso senza un motivo apparente, che lascia chi lo vive smarrito, spaventato, in cerca di spiegazioni. Ma soprattutto con l’ansia che si possa ripresentare.
La psicoanalisi non si accontenta di etichette. Non cerca cosa ha scatenato il panico, ma chi-cosa parla attraverso di esso. Il corpo, in quel momento, si fa portavoce di qualcosa che non riesce a trovare parole.
Cosa c'è sotto il panico?
In molti casi, l’attacco di panico compare in momenti di apparente tranquillità: una relazione stabile, un lavoro sicuro, una vita “sotto controllo”. Eppure, proprio lì, qualcosa cede. Perché?
Freud parlava di ritorno del rimosso: ciò che è stato allontanato dalla coscienza, ciò che non si è potuto pensare o dire, ritorna in forma mascherata, spesso attraverso il corpo. L’attacco di panico, in questa prospettiva, è una forma di emergenza del rimosso, che irrompe quando le difese non reggono più.
Qualche rifermento teorico
Bion, nel suo lavoro sull’elaborazione emotiva, osserva come alcuni pazienti non riescano a contenere le proprie emozioni: sensazioni, vissuti, impressioni interne che non trovano parole, immagini o pensieri capaci di rappresentarli. In questi casi, ciò che non può essere pensato viene agito o somatizzato. Manca quella funzione psichica che lui definisce funzione di contenimento, originariamente svolta dalla madre (la reverie), e in seguito interiorizzata dal soggetto. Quando questa funzione è assente o fragile, la mente non riesce a trasformare gli elementi sensoriali e affettivi grezzi (che Bion chiama elementi beta) in pensieri simbolici (elementi alfa).
L’attacco di panico, in questa prospettiva, può essere letto come un fallimento della funzione α: la mente, sopraffatta, non riesce a trasformare un’emozione grezza in significato. Allora il corpo “si incarica” di dire ciò che la psiche non riesce a pensare: il battito accelera, il respiro si spezza, l’angoscia prende forma concreta. Non è un'emozione che si prova, ma qualcosa che accade, senza mediazioni.
In modo affine, Winnicott parla di quelle situazioni in cui il soggetto ha perso il senso della propria realtà interiore. Quando manca un ambiente sufficientemente buono – un contesto relazionale che favorisca l’integrazione dell’esperienza – la persona può crescere sviluppando un “falso Sé”, un adattamento apparentemente funzionante ma scollegato dai propri bisogni autentici. In questi casi, anche quando tutto sembra “andare bene”, si apre una falla interna. Il panico può manifestarsi proprio in quei momenti in cui ci si dovrebbe sentire “al sicuro”, perché è in quel vuoto, in quell’apparente stabilità, che si rivela il vuoto dell’essere. Un panico senza oggetto, che spesso coincide con una perdita del senso di continuità del Sé, come se qualcosa nel soggetto smettesse di esistere, anche solo per un attimo.
Freud, già nel Caso di Miss Lucy, osservava che il sintomo non è solo il residuo di un trauma passato, ma può anche rappresentare l’irruzione di un desiderio inconscio che ancora non ha trovato forma simbolica. Non si tratta solo di un passato che ritorna, ma di qualcosa che vuole emergere, senza ancora sapere come. L’attacco di panico, da questa angolazione, è come un campanello d’allarme dell’inconscio: qualcosa si muove nel soggetto, qualcosa preme per essere riconosciuto, ma ancora non ha voce.
La clinica ci insegna...
Nel lavoro clinico, capita spesso che dietro un attacco di panico si nascondano passaggi di vita delicati: separazioni, lutti, decisioni importanti, ma anche eventi che sembrano “positivi” (un matrimonio, una nascita, una promozione). Tutti questi momenti mettono in moto desideri e conflitti inconsci, che non sempre trovano una via simbolica per esprimersi. E allora è il corpo a parlare, fuori tempo e fuori controllo.
Nella mia pratica clinica ho osservato che una paziente, dopo aver tanto desiderato sposarsi, nel momento in cui aveva ricevuto la proposta si fosse scatenata in lei una intensa e travolgente angoscia. Non fraintendetemi, era entusiasta, ma questo non escludeva che ci potessero essere anche sentimenti dal segno negativo come tristezza, ansia, anche rabbia… Un aspetto molto affascinante è che in noi possono coesistere felicità e tristezza, rabbia e gioia. Una non esclude l’altra. Infatti proprio la felicità ha spesso la capacità di attivare paure inconsce legate all’abbandono, alla perdita.
Perché iniziare una terapia?
Una terapia non elimina il panico come un farmaco elimina un sintomo. Ma offre qualcosa di più radicale: la possibilità di costruire un senso, di trasformare il panico in parola, in racconto, in soggettività. Di ascoltare ciò che l’attacco di panico ci vuole dire.
Nel percorso analitico, il sintomo non è un nemico da combattere, ma un messaggio da decifrare. L’attacco di panico, allora, può trasformarsi da ostacolo a inizio: inizio di una domanda, di una ricerca.
Ci offre l’incredibile possibilità di scrivere la stessa storia … ma magari con un finale diverso.
Dott.ssa Andrea Budicin
Riferimenti utili per chi vuole approfondire:
- Freud S., Inibizione, sintomo e angoscia (1926)
- Freud S., Studi sull'isteria (1895)
- Bion W.R., Apprendere dall’esperienza (1962)
- Winnicott D.W., Gioco e realtà (1971)